di Simonetta Ercoli
Il periodo dell’anno che coincide con il solstizio d’inverno è da sempre considerato il tempo della luce, il tempo della nascita e rinascita del Sole. Già nel Neolitico, iniziato circa 10.000 anni fa, gli uomini avevano la percezione dell’affievolirsi dell’intensità della luce solare e del progressivo ridursi dell’arco da esso tracciato nel cielo. Questo fenomeno era oggetto di preoccupazione e timore da parte degli uomini, che avevano imparato a comprendere come al Sole fosse legato il ciclo della vita sulla terra e quindi, nel vederlo indebolire, a ragione temevano per la loro stessa sopravvivenza. Per tale motivo, fin dalla preistoria, i nostri antenati si dedicarono all’osservazione del ciclo annuale solare e costruirono strutture più o meno complesse per codificarlo, misurarlo e comprenderlo. Numerosi esempi di questi tentativi di misurazione sono stati rinvenuti in molti siti distribuiti sui diversi continenti.
Uno degli esempi più conosciuti è sicuramente il complesso megalitico di Stonehenge, in Inghilterra. In questa struttura, ancora misteriosa sotto molti aspetti, sembra potersi riconoscere una sorta di calendario legato appunto al Sole e ai suoi punti di levata e calata sull’orizzonte nei vari momenti dell’anno. L’origine del sito sembra risalire al terzo millennio a.C. Allineamento e orientamento “guardano” a nord-ovest, cioè in direzione del solstizio d’estate, in questa foto il Sole sorge nel giorno del solstizio d’inverno e la luce entra in un punto preciso all’interno del cerchio di megaliti. Anche altri siti sono strutturati sul tipo di Stonehenge, oppure puntano a misurare la diversa lunghezza delle ombre che il Sole produce colpendo gli oggetti nei diversi periodi dell’anno; o ancora sono costruiti in modo da lasciar entrare, attraverso pertugi, la sua luce all’interno di luoghi, come caverne o templi, per colpire un oggetto particolare con un raggio nel giorno del solstizio.
Perché tutta questa attenzione al solstizio, in particolare a quello d’inverno?
Il tutto dipende dalla suggestione, che invadeva gli uomini del passato, che il Sole stesse “morendo”, stesse per sparire definitivamente, lasciando l’umanità in una notte perenne. E questa paura, alle alte latitudini, era ben fondata; infatti entro i circoli polari il periodo di buio dura 24 ore, fino a un massimo di sei mesi ai poli (disabitati), e via via diminuisce ad alcune settimane scendendo a latitudini più basse, in cui vivono popolazioni quali i Sami, gli Inuit e altre popolazioni artiche. Sparito il Sole, era come se la natura e il tempo stesso si fermassero per riprendere, dopo settimane o mesi, alla sua nuova levata.
Questa sensibile diminuzione delle ore di luce ha da sempre scatenato negli uomini soluzioni di diverso tipo, al fine di esorcizzare questo evento fatale. Una delle contromisure messe in atto dalle popolazioni a tutte le latitudini, soprattutto in Europa, era legata all’accensione di fuochi rituali (falò, foconi, roghi). L’idea era quella che, se il Sole si era indebolito e la luce era diminuita, accendendo uno, due, molti fuochi sarebbe stato possibile in qualche misura aiutarlo a resistere, fino a che non sarebbe stato in grado di riprendersi, di ‘rinascere’ a nuova vita (magia imitativa).
Nei luoghi dove era troppo freddo andare per campi ad accendere falò, si ricorreva all’accensione di un grosso ceppo (di quercia in genere) nel camino. Il tronco, che ardeva per tutta la lunga notte del solstizio, era considerato ‘magico’ e si credeva che le sue ceneri avessero il potere di preservare gli abitanti della casa da disgrazie o malattie; in alcuni luoghi queste venivano sparse per i campi per renderli fecondi. L’accensione del Ceppo di Natale era diffusa in tutta Europa, in particolar modo nei paesi del centronord e dell’est, dove viene ancora rispettata. Questa tradizione deriva da un’affascinante leggenda. Si narra che, in un tempo lontano, ogni capofamiglia, la sera della Vigilia di Natale, tra profumi di muschio e biancospino e ghirlande appese alle pareti, radunasse la propria famiglia intorno al camino acceso. Si sceglieva insieme il ceppo di legno più grande e maestoso e lo si metteva a bruciare nel fuoco sotto altri pezzi di legna, perché ardesse lentamente, in quanto doveva continuare a bruciare fino all’Epifania, per 12 lunghi giorni, che simboleggiavano i 12 mesi dell’anno. Il giorno dell’Epifania, poi, il capofamiglia raccoglieva i resti del ceppo, che si pensava avessero proprietà magiche: favorire il raccolto, aumentare la fertilità di donne e animali e guarire il mal di denti. La tradizione del ceppo di Natale è stata trasformata addirittura in un dolce e gustoso dessert in Francia nel 1945: Il dolce Bûche de Noël (Tronchetto natalizio).
In questa occasione speciale la casa veniva illuminata anche da molte candele, usanza anche questa ancora molto diffusa specialmente nel mondo anglosassone. Il concetto era sempre lo stesso: la luce del sole manca, è a rischio di sparire, quindi la si cerca di sostenere e propiziare accendendo quanti più punti di illuminazione possibile. Nei paesi del nord Europa si ponevano candele anche all’interno delle finestre per illuminare le strade per i viandanti, quando non c’erano altri mezzi di illuminazione. E l’abitudine è rimasta anche al giorno d’oggi come caratteristica decorativa di tali finestre, che non hanno copertura esterna, ma solo internamente alla casa con tende di diversa fattezza.
Secondo alcuni studiosi della religione ebraica, anche la festa di Hanukkah (Festa delle luci) è un altro rito legato al solstizio d’inverno. Come racconta Elio Cabib, docente di Analisi matematica in pensione a Udine, la festa si sviluppa per otto sere consecutive a partire dal 25 del mese ebraico di kislev del calendario lunare, che può cadere tra la fine di novembre e la fine di dicembre del calendario gregoriano: la data si avvicina molto a quella dei giorni a cavallo del solstizio. Il rituale prevede che si accendano una per giorno le luci del candelabro a nove braccia, le cui luci non possono essere usate per leggere o lavorare, ma solo per la festa. Per ovviare un loro uso casuale e involontario, viene accesa una luce in più a cui viene attribuito idealmente un ruolo di salvaguardia.
“Questa festività – riferisce ancora Elio Cabib – celebra un miracolo avvenuto 22 secoli fa quando la terra d’Israele era una provincia dell’impero di Alessandro Magno, governata da Antioco IV, detto Epifane. In quell’epoca il paganesimo greco si stava gradualmente diffondendo in tutti gli strati della società e puntava a sostituirsi alla cultura ebraica. A rischio per gli ebrei erano la fedeltà alla Torah e alle leggi della vita ebraica; il pericolo incombente era quello dell’assimilazione, dell’allontanamento dalle tradizioni e quindi della perdita dell’identità. Il Tempio di Gerusalemme era stato profanato con l’introduzione di statue degli dei greci, con immagini e altri oggetti proibiti per quel luogo. Si trattava di una conquista soprattutto culturale, quindi in un certo senso più insidiosa di una conquista politica, più subdola, perché buona parte della popolazione ebraica stava in misura sempre maggiore allontanandosi dalla Torah per ellenizzarsi in tutti i sensi, nei costumi e nella mentalità. Gli ebrei non erano in pericolo di vita, non c’erano minacce di sterminio o di annientamento, la posta in gioco era l’identità ebraica e i suoi valori, questo era il pericolo più grande. Scoppiò quindi una rivolta armata guidata da una famiglia, i Maccabei, determinata a riaffermare i principi e i valori dell’ebraismo. Fu una rivolta sanguinosa contro i greci, contro la cultura dominante che si stava imponendo, ma anche interna, contro la parte della popolazione ebraica compiacente e responsabile di questa deriva assimilatoria. I Maccabei vinsero e riuscirono a riconsacrare il Tempio per renderlo idoneo alle antiche funzioni, episodio da cui discende il significato del nome della festa: Hanukkah significa “inaugurazione” (curioso che sia la stessa radice ebraica di “educazione”, cosa che può far riflettere). In quei momenti di emergenza venne trovata un’ampolla d’olio per tenere acceso il lume perenne del Tempio che poteva bastare per un solo giorno, ma per miracolo bastò altri 7 giorni, giusto il tempo per preparare altro olio. Da qui deriva la durata della festa e l’uso di questo candelabro, che si chiama hanukyah.”
Altro aspetto legato al solstizio era quello delle ‘porte magiche’, cioè quelle attraverso cui il mondo dei vivi entrava in contatto con quello dei morti nel solstizio d’inverno e con quello degli dei nel solstizio estivo. Durante quest’ultimo figure mitologiche, streghe, satiri entravano nel mondo degli uomini per celebrare sabba ai crocicchi e raccogliere essenze per preparare pozioni. Durante quello invernale, invece, spaventosi spiriti provenienti dall’aldilà scorrazzavano sulla Terra; la paura che incutevano veniva esorcizzata mascherandosi da mostri o creature spaventose per confondere e ricacciare queste entità minacciose e soprannaturali nel loro mondo fino a che la porta non si fosse richiusa. Memoria di questi riti è rinvenibile ancora oggi nelle celebrazioni cristiane della festa dei Morti e di Ognissanti, nonché nelle celebrazioni più ‘pagane’ della festa di Halloween, molto sentita in tutto il mondo anglosassone. Ma in forma similare era presente anche nella cultura contadina del centro Italia, come testimonia l’abitudine di trasformare le zucche gialle in maschere rese orripilanti da una candela accesa all’interno, le ‘marroche’, che venivano esposte sulle finestre per spaventare i demoni. Queste festività sono ora in effetti più spostate a novembre rispetto al solstizio, ma sono comunque collocate all’inizio del periodo di più evidente discesa dell’arco solare e di più marcata diminuzione delle ore di luce.
Altro esempio legato alla tradizione popolare e religiosa è il giorno 13 dicembre, Santa Lucia (Lucia da Siracusa, 283 – 13 dicembre 304) che, secondo fonti greche, era una ricca giovane siracusana, fidanzata con un concittadino. Durante un suo pellegrinaggio a Catania per impetrare la grazia di Sant’Agata verso la madre malata, ebbe l’apparizione della santa che le prediceva non solo la guarigione della madre ma anche il futuro martirio. Tornata a Siracusa decise di non sposare più e donò ogni suo avere ai poveri. Il fidanzato la denunciò alle autorità per il mancato assolvimento del matrimonio, ma neppure le autorità riuscirono a piegare la giovane e così la condannarono a vivere in un lupanare. Quando, però, andarono a prenderla, i soldati non riuscirono a spostarla dal punto in cui era con nessun mezzo, come se fosse roccia; fu, quindi, condannata a morte, sembra il 13 dicembre. Il suo nome evoca la luce, astronomica e spirituale: messaggera di luce per lo spirito, quale testimone della sua fede, così come messaggera del nuovo Sole che nasce. Proprio per questo viene raffigurata con i simboli della luce: lampada, piattino con gli occhi, mantello sontuoso ricoperto da gemme. Nel Medioevo la sua venerazione si diffuse in tutta Italia e anche nei paesi limitrofi e, come Babbo Natale, Gesù Bambino, Befana nella notte tra il 12 e 13 dicembre porta i doni.
Tale data, fino a prima del 1582, coincideva con il giorno del solstizio d’inverno (tra il 20 ed il 22 dicembre) ed è proprio a quel periodo che risalgono i proverbi: “Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia” e “Da Santa Lucia a Natale, il giorno allunga del passo di un cane”. Il solstizio d’inverno nel vecchio calendario Giuliano cadeva il 25 dicembre e celebrava la “rinascita” del mondo. Il termine solstizio viene dal latino solstitium, che significa letteralmente “sole fermo”, perché nell’emisfero nord della terra, nei giorni dal 22 al 24 dicembre, il Sole sembra fermarsi in cielo, fenomeno tanto più evidente quanto più ci si avvicina all’equatore. In quel periodo la sfasatura fra calendario civile e calendario solare era ancora così rilevante che il solstizio cadeva proprio fra il 12 e il 13 dicembre, rendendo quindi questo il dì più corto dell’anno. Quando, però, nel 1582 entrò in vigore il calendario gregoriano, che correggeva gli errori accumulati da quello giuliano, furono soppressi 10 giorni dal giovedì 4 ottobre al venerdì 15 ottobre e così la data del solstizio si spostò dal 13 al 21 dicembre nei paesi che adottarono subito il nuovo calendario, ma non nei paesi nordici, che lo adottarono circa duecento anni più tardi. La festa della Santa, però, rimase sempre al 13 e così anche il detto legato al dì più corto si è tramandato invariato fino ai nostri giorni, pur non rappresentando pienamente l’attinenza con la realtà.
La percezione dell’imminenza della fine, della morte del Sole e, per estensione, anche della stessa vita sulla Terra suggeriva l’idea della ‘fine del mondo’. Questo da sempre ha generato non solo preoccupazione e timore ma, per paradosso, anche l’effetto contrario: grande euforia, rottura delle regole, ribaltamento dell’ordine costituito. Se tutto sta per finire, tanto vale vivere gli ultimi momenti dandosi alla pazza gioia! È il senso dirompente del carnevale. Nell’antichità, in prossimità del solstizio d’inverno avevano luogo feste sfrenate, simili nelle modalità di svolgimento e nello spirito al nostro carnevale, che ne è una trasposizione, spostata nel tempo per effetto della sovrapposizione alle festività cristiane.
Nell’antica Grecia si tenevano in questo periodo le Lenee, feste in cui le sacerdotesse Menadi si davano a danze orgiastiche che culminavano con lo smembramento del dio Bacco, che poi veniva ricomposto dalle stesse sottoforma di un neonato e ripresentato al mondo: il dio moriva per poi rinascere.
Nell’antica Roma si celebravano invece i Saturnalia, festeggiamenti in onore di Saturno, dio dell’età dell’oro, che si tenevano dal 17 al 24 dicembre. Durante questi giorni venivano scambiati doni; agli schiavi era permesso di fare ciò che volevano; i padroni si vestivano con abiti umili e si mescolavano ai servi; insomma innumerevoli rituali di rovesciamento dei ruoli, in attesa del 25 dicembre, giorno in cui si celebrava la rinascita del Sole, perché è dal 25 che si percepisce la sua inversione di rotta, insomma la nascita di un nuovo anno. Quindi è da tanto tempo che questo è un periodo di festeggiamenti: rovesciamento, carnevale, eversione in vista della fine del mondo prima del 25; allegria, entusiasmo dal 25 per la nascita del nuovo Sole, del nuovo anno. La metafora della nascita come discrimine tra un prima e un dopo che ha portato tutte le più antiche religioni e civiltà a collocare nel 25 dicembre il compleanno della principale divinità.
E così per gli antichi egizi il 25 dicembre era nato Horus, figlio di Iside e Osiride, di cui si credeva fosse la reincarnazione. Molte statuette sono state ritrovate con l’iconografia di Iside, adornata dal disco solare sul capo, che tiene in braccio e allatta Horus. I Babilonesi festeggiavano il 25 dicembre la nascita del dio Iannuz figlio della dea Ishtar, la più potente e venerata, che spesso era raffigurata mentre teneva in braccio il piccolo, dalla cui testa partivano dodici raggi di sole. Freyr figlio di Odino e Freya nel nord Europa; Zarathustra in Azerbaigian; Budda in oriente, Krishna in India. Le divinità dell’area centroamericana di epoca precolombiana, invece, trovandosi nell’emisfero australe, celebravano questa festività nel solstizio di giugno. L’iconografia, comunque, è sempre la stessa: una donna che tiene in braccio un bambino piccolo dal cui capo proviene una luce che ricorda il sole bambino.
Ma la divinità che prima di Gesù più saldamente presidiava nella civiltà antica le celebrazioni del 25 dicembre e del solstizio d’inverno era senza dubbio il dio Mitra, proveniente dalla Persia. Il culto di Mitra fu diffusissimo in tutto l’impero romano in cui, grazie all’imperatore Aureliano che lo introdusse a Roma il 25 dicembre, o nei giorni immediatamente prossimi ad esso, si celebrava la festa del ‘natale del sole invitto’, una celebrazione in onore di Mitra. Dio guerriero partorito da una vergine, uscito da una grotta, chiamato il salvatore, che ebbe dodici discepoli, insomma, una divinità che molto condivideva con la figura del Cristo.
Con la diffusione del cristianesimo a un certo punto ci si pose il problema del compleanno di Gesù, di cui non c’erano attestazioni precise. Inizialmente lo si pose al 6 gennaio, ancora oggi Natale per la chiesa Copta e Ortodossa, ma successivamente sembrò più opportuno collocarlo al 25 dicembre, il momento più prestigioso dell’anno, il momento della rinascita del Sole; non solo per soppiantare riti pagani difficili da eradicare ma anche per una più precisa valutazione dei testi sacri. Essendo divenuto il Natale di Cristo l’avvenimento più importante, alcune feste preesistenti, quali quella dei Morti e dei Santi, del Capodanno, del Carnevale, che si concentravano prima tutte intorno all’evento cruciale rappresentato dal solstizio d’inverno, subirono uno slittamento in avanti o indietro sul calendario, dando origine alla cadenza cronologica che conosciamo oggi.