di Simonetta Ercoli
Il cielo, spettatore silenzioso di tutti gli eventi umani, con i suoi straordinari astri e la periodicità dei suoi fenomeni, è stato il primo protagonista dell’attività speculativa dell’uomo e a esso ogni civiltà ha affidato la sua storia fin dalla notte dei tempi.
Osservando il cielo, si ha la sensazione di essere all’interno di un’enorme semisfera che, di notte, si popola di numerose sorgenti luminose di diversa intensità: le stelle. Durante la notte sembra che questa semisfera ruoti come un corpo rigido, in modo tale che la distanza angolare tra le varie stelle rimane la stessa. Questo effetto dà la sensazione di trovarci al centro di una sfera sulla
quale appaiono incastonate le stelle. Continuando a osservare per giorni, mesi e anni, ci si accorge che alcuni corpi celesti si spostano tra le stelle e per questo furono chiamati dagli astronomi/astrologi del passato corpi erranti: la Luna, il Sole e i pianeti. Il moto annuale del Sole si nota dal fatto che i differenti gruppi di stelle visibili la notte, denominati costellazioni, cambiano nel corso dell’anno.
I cambiamenti che avvengono in cielo furono notati già in epoca preistorica e risalgono a 30.000 -37.000 anni fa le prime registrazioni sistematiche dell’alternarsi delle fasi lunari. Manufatti ossei scoperti in varie località (a Ishango in Congo, sui monti Lebombo in Swaziland e in Cecoslovacchia), testimoniano definitivamente le insospettabili capacità di “calcolo” dell’uomo del Paleolitico.
Secondo l’eclettico Domenico Cassini (1625-1712, matematico, astronomo, ingegnere, medico e biologo): “Non fu solo la curiosità, che trasportò gli uomini ad applicarsi alle osservazioni astronomiche; si può dire che vi furono costretti dalla necessità. Perché se non si osservano le stagioni, che si distinguono dal moto del Sole, è impossibile di riuscire nell’agricoltura”.
Già 6000 anni fa in Mesopotamia i babilonesi costruivano enormi piramidi, le “ziggurat”, per osservare il cielo, che consideravano come una volta solida, le cui fondamenta poggiavano sul vasto oceano “l’abisso” (Apsu), che a sua volta sosteneva la Terra. Fu 4000 anni fa che a Ur venne registrata la prima eclissi di Luna della storia. Nel III millennio a.C. i Sumeri avevano già dei planisferi in terracotta, in cui era rappresentata la scansione dell’anno in dodici mesi, a ciascuno dei quali erano associati un nome, un simbolo e un numero, e sul retro era descritta la posizione di determinate stelle: la realizzazione di un primo calendario.
Sempre nel III millennio a.C. in Armenia sul monte Gegama, non lontano dal lago Sevan, furono trovati reperti archeologici con incisioni rupestri; su di essi sono raffigurate le stelle del Leone, dello Scorpione e del Sagittario, così come erano visibili a occhio nudo. Le stelle sono rappresentate da un cerchio con un punto al centro: il diametro del cerchio dipende dallo splendore della stella.
Anche nell’Antico Egitto a partire dal 3000 a.C. si ritrovano fonti, quali i coperchi di sarcofagi dell’Antico (2.850 – 2.180 a.C.) e del Medio Regno (2.133 – 1.786 a.C.), gli orologi stellari, gli studi sull’orientamento delle piramidi e i soffitti dei templi, che testimoniano l’importanza dell’astronomia per fissare le date delle feste religiose e determinare le ore della notte, compiti svolti dai sacerdoti dei templi, i quali ricavavano i dati necessari osservando le stelle, le congiunzioni dei pianeti e le fasi della Luna. Il carattere religioso dell’astronomia egizia traspare anche dall’architettura stessa dei templi, che si presentano costituiti da pilastri e pareti, le cui aperture e divisioni sono realizzati in modo da guidare il raggio di un determinato astro nel Naos, la cella più interna, in cui era custodita la statua del dio. Il cielo era pensato come fatto di acqua, che circondava la terra e si estendeva all’infinito in tutte le direzioni, e l’atmosfera impediva all’oceano celeste di riversarsi su di essa, creando una sorta di bolla, all’interno della quale esisteva la vita. Al contrario di tante altre antiche culture, gli egizi identificavano il cielo con una donna – la dea Nut – e la terra con un uomo, il dio Geb. Nut, dea del cielo, era immaginata con il corpo di una donna che, posta ad arco sulla terra, la toccava con la punta delle mani e quella dei piedi. Secondo il mito ingoiava il Sole la sera per partorirlo la mattina seguente in un eterno ciclo di morte e di rinascita. Questo fece di lei il simbolo per eccellenza della rigenerazione eterna.
Anche il famoso sito megalitico di Stonehenge (2500 a.C.), serviva per quantificare il tempo, necessità primaria dell’uomo: l’allineamento delle pietre segna i punti in cui sorge e tramonta il Sole nei solstizi.
Testimonianze giungono anche dall’estremo oriente, dovedal 1300 a. C., e per più di 2600 anni, i Cinesi hanno registrato circa 900 eclissi di Luna e 600 eclissi di Sole e creato elaborate mappe del cielo.
Quindi l’astronomia permeava tutta l’attività culturale delle diverse civiltà, anche le più remote nel tempo, e grazie alle osservazioni del cielo si sono sviluppate l’ideazione e la realizzazione di manufatti, strumenti, testi tecnici e ancora la produzione di opere letterarie, come testimoniano i papiri delle piramidi e i testi epici, quali l’Iliade e l’Odissea.
Intorno al 700 a.C. anche il mondo greco si affacciò sul palcoscenico dell’astronomia con Esiodo, il poeta che, nel suo libro “Le opere e i giorni”, esponeva le principali nozioni di astronomia pratica, utili alla navigazione e all’agricoltura.
Nel VI secolo a.C. iniziarono, con la scuola di Mileto (Talete, Anassimene e Anassimandro), anche le prime riflessioni sull’Universo e a essa fecero seguito tutte le varie scuole greche (Pitagora, Aristotele, Platone ecc.), che gettarono le basi per lo sviluppo di tutte le scienze, prima fra tutte l’astronomia, che da questo periodo iniziò la sua rapida evoluzione.
Eudosso di Cnido (408 – 355 a.C. matematico e astronomo) fu il primo a elaborare matematicamente un sistema del mondo in cui gli astri erano distribuiti su 27 sfere ideali.
Il poeta greco Arato di Soli (315 – 240 a.C.) nel suo poema astronomico “I fenomeni e i pronostici” descrisse, in una prima parte, la volta stellata del cielo, distinguendo le costellazioni dei due emisferi e le leggende a esse riferite; a seguire, espose la teoria dei circoli con cui poteva essere divisa la sfera celeste, il sorgere e il tramontare delle costellazioni. L’ultima parte dell’opera la dedicò alla descrizione dei segni premonitori delle variazioni meteorologiche, attraverso l’osservazione del mondo naturale e del comportamento degli animali.
Avanzino per gruppi o vadan sparsi
uno qua ed uno là, se li trascina
sempre ed ininterrottamente il cielo.
E neppur di un poco esso s’inchina,
ma il suo asse rimane sempre saldo
nel medesimo modo, in equilibrio
da ogni parte, reggendo nel suo mezzo
la terra e rivolgendo il cielo stesso.
Dai due lati lo limitan due poli,
l’un dei quali però non è visibile,
mentre quello che sta nel punto opposto,
dalla parte di Borea, alto si leva
sopra l’Oceano. E due Orse, abbracciandolo,
insieme gli si volgono d’intorno: è per questo che son chiamate Carri.
Ipparco di Nicea (185 – 125 a.C., astronomo, matematico e geografo) diede un contributo fondamentale all’astronomia, grazie anche alla costruzione di alcuni strumenti:
- scoprì le irregolarità del moto della Luna;
- la variabilità della durata delle stagioni legata alla distanza della Terra dal Sole;
- calcolò la distanza tra Terra e Luna;
- compilò un catalogo di oltre 800 stelle.
Il greco Claudio Tolomeo (100 -170 d.C., astronomo, matematico e geografo) visse ad Alessandria d’Egitto, dove scrisse l’Almagesto, testo fondamentale dell’astronomia per secoli. In esso descrisse il primo modello organico e strutturato dell’universo, che concepiva finito, sferico e geocentrico: Sole, Luna e cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) ruotavano attorno alla Terra, compiendo ogni giorno un’orbita circolare verso occidente. I pianeti, oltre a compiere un movimento di rivoluzione intorno alla Terra, ruotavano anche intorno ad un punto, l’epiciclo. Oltre Saturno posizionava la sfera delle stelle fisse.
La concezione tolemaica si radicò profondamente nel tessuto culturale dell’epoca e contaminò tutte le scuole del tempo in ampia parte del mondo conosciuto, fatto che le assicurò una longevità sorprendente.
Nel Medioevo, per Dante Alighieri (1265 – 1321) e i suoi contemporanei, con il termine astronomia si intendevano tutte le discipline che avevano a che fare con il cielo e le stelle. Essa non venne mai trattata esplicitamente da Dante, ma occupò, comunque, un posto di grande rilievo in tutta la produzione dantesca. In paticolar modo, nella Divina Commedia che, pur non essendo stata concepita come un trattato scientifico di astronomia, lo diviene per l’accuratezza con cui il poeta descrive gli orari e i luoghi dei vari eventi. La struttura globale dell’opera risulta permeata dalla tipica concezione astronomica medievale, cioè quella tolemaica, influenzata dalla lettura di Al-Fargani, astronomo persiano vissuto in Egitto nel IX sec. e Giovanni Sacrobosco, matematico, astronomo e astrologo inglese del IX sec.
I cieli stellati e i fenomeni astronomici arricchirono le espressioni artistiche di tutto il medioevo con dipinti e affreschi, che ancora oggi rapiscono per la loro bellezza; basti pensare alla splendida Cappella degli Scrovegni a Padova, in cui Giotto inaugurò la stagione della cometa dipinta sopra la capanna di Betlemme.
Per un rinnovamento delle concezioni astronomiche bisogna attendere il XVI sec., quando Niccolò Copernico (1473 – 1543, astronomo, matematico e religioso polacco), nel suo libro “De Rivolutionibus Orbium Celestium”, descrisse la sua teoria astronomica, detta “teoria eliocentrica” o “teoria eliostatica”, in base alla quale il Sole era immobile al centro dell’universo e la Terra, al pari degli altri cinque pianeti allora conosciuti, ruotando quotidianamente sul suo asse, girava nell’arco di un anno intorno a esso.
La strada per un cambiamento nello studio del cielo era iniziata.
È con Galileo Galilei (1564 – 1642, fisico, astronomo, filosofo, matematico e scrittore) che l’astronomia assunse una precisa connotazione scientifica, grazie all’uso del primo cannocchiale, e abbandonò definitivamente nel campo delle discipline empiriche l’astrologia, con cui aveva condiviso il cammino fin dagli esordi.
Proprio in conseguenza all’evoluzione tecnologica, l’astronomia subì un rapido sviluppo, tanto da articolarsi in branche diverse, attualmente codificate in tre sezioni:
- ASTRONOMIA SFERICA, che studia i sistemi di riferimento delle coordinate con cui si esprime la posizione di un oggetto sulla volta celeste;
- MECCANICA CELESTE, che studia i movimenti dei corpi celesti, siano essi pianeti, sistemi stellari o galassie;
- ASTROFISICA, che studia i corpi celesti con i metodi della Fisica Moderna, cioè cerca di scoprirne la composizione chimica e le condizioni fisiche (densità, temperatura ecc.), affrontando anche i problemi relativi alla loro origine, evoluzione e fine.
Analogo destino dell’astrologia toccò alla musica che, dopo la rivoluzione scientifica, uscì dal campo delle scienze, occupato sin dal V sec. a.C., per entrare definitivamente in quello delle arti; e con la nascita dell’estetica nel 1750, tale mutamento venne accuratamente codificato.
Nonostante ciò il lavoro di ricerca di Johannes Kepler (1571-1630, astronomo, astrologo, matematico, cosmologo, teorico musicale, filosofo della natura e teologo luterano tedesco) affondò le sue radici nella Teoria della musica delle sfere, antico concetto filosofico che considerava l’universo come un immenso sistema di proporzioni numeriche, in cui i movimenti dei corpi celesti producevano una musica costituita da concetti armonico-matematici, non udibile dall’orecchio umano ma intellegibile dalla mente. Un ordine e un’armonia perfetti e valutabili tramite la matematica e soprattutto la geometria, discipline attraverso cui Keplero cercò di confermare la sua convinzione che, come le consonanze musicali esprimevano un rapporto preciso, così le distanze dei pianeti dal Sole rappresentavano rapporti precisi: questa sua ricerca sulla corrispondenza tra gli uni e gli altri, lo portò alla formulazione delle sue ben note leggi.
Keplero rilevò che la velocità del moto di rivoluzione dei pianeti variava in modo continuo da un massimo a un minimo; ipotizzò che a ogni velocità corrispondesse una frequenza e che l’insieme di tutte le frequenze generasse una melodia. Ciascun pianeta, quindi, esprimeva una melodia propria, diversa per estensione in base all’eccentricità dell’orbita: quella di Mercurio, pianeta con l’orbita più ellittica, doveva risultare molto variegata; mentre quella di Venere, con orbita quasi circolare, monotona. Calcolò, allora, le ampiezze degli archi orbitali giornalieri percorsi da ciascun pianeta nei momenti più statici, cioè quelli di massima distanza dal Sole (afelio) e quelli di minima (perielio), e confrontò i rapporti trovati tra loro con quelli degli intervalli musicali: erano praticamente corrispondenti. I discostamenti dall’esattezza erano così minimi da non poter essere rilevati all’osservazione.
Keplero era pronto per scrivere il suo pentagramma.